Sembra ovvio che un santo abbia avuto dei genitori santi. Anche se non è sempre così, lo è stato per Teresa di Gesù Bambino, a ventiquattro anni Santa e dottore della chiesa. Chiaramente un fenomeno. I suoi genitori sono la prima coppia canonizzata. Una coppia normale per quei tempi. Si sposarono il 12 Luglio 1858. Lui, Luigi, un orologiaio e gioielliere; lei, Zelia, aveva una azienda dove facevano e vendevano i pizzi. Ebbe nove gravidanze, ma soltanto cinque figlie sopravvissero; normale in un periodo in cui la mortalità infantile era alta.
A quarantacinque anni gli venne diagnosticato un cancro e le restava un anno di vita. “Mettiamoci nelle mani di Dio, Lui sa meglio di noi quello che ci occorre, è Lui che fa la ferita e che la fascia”, fu lo spirito con cui affrontò la situazione. Non si arrese e andò a Lourdes scrivendo: “Però se non sarò guarita, cercherò di cantare lo stesso al ritorno”. Lo sposo le è vicino, sostenendola con la sua fede. Dopo un anno di prove si spense a 46 anni lasciando il marito e cinque figlie; la più piccola, Teresa, ha quattro anni.
Soltanto chi è passato da una simile esperienza può capire la situazione. Continuarono la vita di famiglia sostenuti dalla preghiera e in comunione col Carmelo, dove, una dopo l’altra, entreranno quattro sorelle.
Fin qui, una famiglia provata come tante, sostenuta dalla preghiera, che aveva fatto del vangelo l’unica regola di vita, in un abbandono totale nelle mani di Dio. Basterebbe questo vissuto per ritenerla una famiglia santa. Invece non basta. Comincia la parte eroica, quella per cui diventa un caso unico con cui il Signore ha voluto dire che non esiste situazione in cui non si possa arrivare diventare santi.
All’età di quasi sessantasei anni , Luigi, raggiunge l’apice della prova più difficile della sua vita. E’ internato in un “pubblico ospedale psichiatrico”. Si tratta senz’altro di una delle “prove più dure che un uomo possa vivere”. Un vero e proprio dramma umano. Teresa non esita a chiamare questa disgrazia che è di tutta la famiglia “la nostra grande ricchezza”. In quel periodo essere internato in un ospedale psichiatrico era considerato una condanna vergognosa. Solo la parola “Bon Sauver”, il nome dell’ospedale, generava un senso di ironia e di paura. Era un manicomio. Anche le sue figlie furono umiliate dalla Priora che pubblicamente mise in guardia: avevano il padre in manicomio. Questa situazione di umiliazione sociale, fisica e mentale dona alla santità di Luigi uno splendore umico.
Nonostante il peggioramento su piano clinico da lui si irradia una dignità riconosciuta da tutti. Dichiara una suora: “In così breve tempo, da quando è qui, ha saputo farsi amare e poi ha qualcosa di tanto venerabile! Ha in sé un’impronta non comune”. Parlando con un medico disse: “Sono sempre stato abituato a comandare, ora mi vedo ridotto ad ubbidire, è difficile. Lo so perché il Buon Dio mi ha dato questa prova: non avevo mai subito una umiliazione nella vita, me ne occorreva una”. Umiliazione, è la parola chiave per la spiritualità di ogni tempo. L’umiltà, virtù sovrana non trionfa che dopo un cammino nel crogiolo dell’umiliazione. “Chi si abbassa sarà innalzato”. Sulla vita ormai prossima alla fine Luigi ne fa l’esperienza. “Al nostro papà, così santo, mancava senza dubbio questa corona così umile quaggiù, ma così brillante in cielo!...La corona dell’umiliazione”, scrive la figlia Teresa da vero Dottore della Chiesa.
Viene privato di tutto, anche dei suoi beni.
Un santo in manicomio, ecco l’originalità della santità della coppia Martin. Un santo che nei momenti di lucidità, che non son pochi, prende coscienza della sua condizione e ringrazia Dio di averlo voluto assimilare al suo Figlio Gesù nell’Umiliazione. Ho conosciuto personalmente un’altra esperienza simile alla Sua che mi conferma che tutto è possibile.
P.S. Integrate queste pochissime note leggendo: Jean Clapier, «Luigi e Zelia Martin». Ed. Punto Famiglia