Sono la persona meno adatta per scrivere, adesso, cosa prova e come vive un prete, un parroco, nel mese –siamo al 31 marzo – del corona virus… Ci provo. La cosa più facile è raccontare semplicemente quello che succede. Ma l’altro ieri avrei sicuramente scritto quella cosa; ieri mi è capitata quella esperienza che assolutamente devo ricordare; e oggi di nuovo cose belle e tristi che ti commuovono e ti segnano. Non saprei da che parte cominciare.
Inizio dal dato più evidente e più crudo, quello per cui tutto il mondo parla di Bergamo, quello che trasforma una situazione surreale (l’isolamento forzato di tutti), ma tutto sommato sopportabile, in qualche cosa di drammatico e insopportabile: la morte. La morte che dilaga in modo irrefrenabile. Ieri, proprio nel giorno del Signore, sei persone ci hanno lasciato! Due giorni prima, cinque! Nel mese di marzo che si conclude oggi, sono morte 43 persone. E’ qualcosa di angosciante! Da diversi giorni ho deciso di non suonare le campane con i tipici rintocchi che segnalano la morte di qualcuno. Significherebbe seppellire sotto un grave e ininterrotto suono tutte le speranze di un paese che cerca vie d’uscita.
Altre volte la morte ha visitato in maniera insistente la nostra comunità, come ovunque: quattro funerali in due giorni è successo più di una volta. Quante volte ho ascoltato la battuta: “Io scappo da Grumello perché ci sono troppi morti!”. Nessuno più fa quella battuta, perché è così anche nei paesi vicini. Perché altre volte, almeno, dopo una settimana di funerali arrivava un periodo più sereno. Ora invece no: non c’è respiro. E ogni giorno ci si domanda: “Fino a quando?”.
Ho pensato più volte, facendo confronti evitabili, che non si è trattato del dramma di un incidente stradale che ha portato via una giovane vita, o di un papà stroncato da un tumore inesorabile. Che non sono paragonabili, in quanto a tragicità, ai numeri di questi giorni, i circa cento nomi di giovani ventenni scritti sulla pietra nella nostra piazza comunale a ricordare i caduti nelle due grandi guerre. Ho pensato che sono morti molti anziani (brutta affermazione! come se un ottantenne non avesse diritto a vivere ancora un po’ con la sua famiglia!). Ma a nulla vale fare questi pensieri: ogni squillo di telefono toglie il fiato. Non è un problema, nel senso che non è faticoso, andare e tornare più volte al giorno dal cimitero (sono le mie uniche uscite oltre l’andare in chiesa) per quel rito, sostitutivo del funerale, che è ridotto a due preghiere e a una benedizione. E’ un problema tutto il resto! Anche per il nostro comune, che dispone di un ampio cimitero, c’è il dramma di non sapere dove appoggiare le bare in attesa della cremazione (da ieri ci è stato chiesto dall’Amministrazione comunale di poterle disporre nella chiesetta di san Siro, che si trova dentro il cimitero). E’ un problema salutare Mario, una della persone più conosciute e stimate del paese, e sua cognata Graziella, con la presenza di soli tre parenti, con i rispettivi coniugi costretti a casa dalla quarantena; è stato un problema oggi salutare, insieme, Rosa e Mario, moglie e marito morti a meno di due giorni di distanza l’una dall’altro; è un problema che l’avviso, scarno, mi sia arrivato dalla figlia con un sms: “Ciao, don Angelo, la mamma ci ha lasciato”, e poche ore dopo: “Ci ha lasciato anche il nostro papà, don Angelo… non è giusto…”; è un problema non poter andare più nelle case per portare un conforto ai parenti, per offrire un abbraccio, per dare la possibilità di pregare insieme. E’ un problema che praticamente ogni giorno è morto un mio confratello sacerdote! Trenta preti, di solito, se ne vanno in due anni, non in un mese! E uno era più giovane di me!
Sono poche le lacrime! C’è grande dignità, compostezza, rassegnazione, certamente fede. Ma manca il respiro! Un’insistenza così dilagante e devastante della morte stende una cappa opprimente sulle nostre case, dove pure le famiglie, quelle ancora non toccate dal dramma di un lutto o dal ricovero in ospedale di una persona cara, mi pare riescano a vivere con pazienza e serenamente il loro “io resto a casa”.
Avessi scritto queste righe tre settimane fa, o ancor prima, cioè all’inizio della “clausura”, mi sarei forse soffermato maggiormente su altri aspetti della vita al tempo del coronavirus. Come, ad esempio, il celebrare la messa a porte chiuse. Fioccavano le domande dei fedeli e degli amici: “Cosa si prova, don a celebrare da soli con la chiesa vuota?”. E la risposta, un po’ a effetto, ma tutto sommato sincera: “Non era vuota! Sentivo tutta la comunità presente più che mai!”. In effetti la nostra mitica radio parrocchiale e la possibilità di un canale YouTube (che già c’era, ma riscoperto all’improvviso – la necessità aguzza l’ingegno! -) ci hanno consentito fin dal primo giorno, lunedì 24 febbraio, di essere presenti con la voce e anche con le immagini nelle case di tutti quelli che erano interessati. E quanti parrocchiani a ringraziare! Ad affermare che è molto bello! Che le parole della liturgia e le nostre voci infondono speranza e rafforzano i legami! E’ passato più di un mese… La situazione è la stessa e un po’ noi preti ci siamo abituati. Noi preti, sì: abbiamo la fortuna di essere in tre. Perciò non si verifica mai la situazione di essere proprio soli a celebrare. “Quasi” mai… Perché qualche linea di febbre, che ci ha costretto per pochi giorni in casa, a turno, è arrivata a tutti. Ci siamo abituati, ma aumenta la tristezza. Al pensiero poi che anche la Settimana Santa e il giorno di Pasqua saranno da vivere in questa modalità “catacombale”, privando la Comunità del ritrovarsi, del celebrare, dell’accostarsi ai Sacramenti, di far festa insieme. Non mi voglio addentrare nelle riflessioni e considerazioni circa questa inedita forma di essere Chiesa. Inedita per noi, Chiesa italiana e bergamasca, non per tante Comunità sparse nei luoghi più reconditi del mondo, dove il non poter celebrare la liturgia eucaristica per mancanza di preti è pane quotidiano… Non mi addentro: bravi pensatori e uomini di comunicazione ecclesiale lo hanno già fatto e lo stanno facendo. Mi è capitato di leggere qualcosa (non tutto dello stesso tenore e sulla stessa linea d’onda): riflessioni interessanti e stimolanti.
Noi, senza troppi filtri teologico-liturgici, abbiamo provato a fare quello che ci sembrava giusto, confrontandoci anche con i confratelli delle parrocchie vicine. La possibilità di poter usufruire di un canale YouTube ha acceso la fantasia. Ci si è immaginati di sfruttare al massimo questa forma di comunicazione diventata ormai di default, basilare, per le giovani generazioni e non solo. Ma di nuovo, lo smarrimento, la sofferenza diffusa, che penetra anche nelle mura della casa parrocchiale, una certa mancanza di lucidità (parlo soprattutto per me) non hanno consentito di preparare chissà quali catechesi, conferenze in streaming, proposte di preghiere per famiglie e bambini, quasi a mettere subito in piedi una Chiesa nuova, con una forma di evangelizzazione più diffusiva, coinvolgente, attraente. Digitale… Mmmm! Meglio ritenere e sperare questo tempo a termine. Sì: una Quaresima di spogliazione, di silenzi, di vuoti, di digiuni sacramentali, di lacrime, di funerali non funerali, un vero deserto, nell’attesa di una rinascita. Che tutti speriamo nascita di una Comunità purificata e rinnovata, essenziale e viva, povera e ricchissima.
Sono passati ormai quaranta giorni senza incontri, senza riunioni, senza consigli, senza catechesi, senza corsi, senza tempi stretti, senza affanni… Un disastro e, forse, una cura.
Nel racconto dei fatti concreti e delle esperienze di questi tristi giorni aggiungo questa valutazione: sono fortunato! Non devo sperimentare la solitudine, perché, come ho già detto, viviamo assieme in tre. In questi casi la vita comune è assolutamente “delizia” e poco o quasi niente “croce”. Spero tanto che rimanga una traccia di questa bellezza nel nostro modo di vivere anche dopo. Sono sfacciatamente fortunato: il contributo mensile dell’Istituto del Sostentamento del clero arriva regolarmente. Sono preservato dall’angoscia di chi ha dovuto interrompere l’attività lavorativa e sta vedendo prosciugarsi la propria fonte di reddito. Sono fortunato per l’affetto che ci circonda. L’altro giorno ho svuotato, in chiesa, la cassetta dove si possono depositare le intenzioni di preghiera da affidare alle Suore anziane dell’Istituto delle Poverelle (la chiesa di giorno è aperta e si può entrare –tra una spesa e l’altra-) e le ho sbirciate prima di consegnarle. Su un foglietto ho letto: “Preghiamo insieme per i nostri “don”, perché si sentano accompagnati e consolati da tutti i cristiani della chiesa che vive in Grumello e tenuti per mano dal Padre, Dio di ogni consolazione. Grazie!”. Siamo considerati importanti, ci vogliono bene. Ci ringraziano in continuazione.
Io so bene che gli importanti, gli eroi –così tutti li abbiamo definiti-, i martiri della responsabilità e della generosità, i santi, sono coloro che si sono curati e si curano degli ammalati: medici, infermieri, ausiliari sanitari, personale e volontari delle ambulanze, personale delle pulizie e dei trasporti… Quanti medici hanno dato la vita! Capito??? Sono morti! Perché non si sono tirati indietro! Perché hanno considerato la vita e la salute degli altri più importante della loro! Come Gesù! Un esercito di persone speciali: alla data di oggi i medici che hanno perso la vita per il covid-19 sono più di 60!
In questi ultimi giorni la solidarietà diventa sempre più spettacolare, in tutti i sensi. E’ sostegno alle strutture sanitarie, sostegno alle famiglie e alle persone che per l’interruzione del lavoro sono arrivate a non avere più mezzi di sussistenza. E’ bastato che si intravvedesse questo problema e subito la Comunità fa vedere di essere eucaristica anche in assenza della celebrazione. Esempi di attenzione e generosità si moltiplicano. Un gruppetto di giovani si è reso disponibile per portare a domicilio alle famiglie bisognose le “borse” della nostra Caritas; una signora mi telefona per chiedere l’IBAN della Caritas diocesana; un produttore di generi alimentari mi dice la sua disponibilità a offrire, anche per lungo tempo, i suoi prodotti; ieri, nella nostra cassetta della posta, accanto al quotidiano che ero andato a prelevare, una bustina, di quelle sgualcite, recuperate in fondo a qualche cassetto, recante scritto: “offerta per i poveri” e contenente 500 euro…. Siamo buoni, in fondo? Diciamo che è evidente che potremmo esserlo. Spesso questa bontà rimane sotto il coperchio dei nostri schemi, delle nostre abitudini, della nostra superficialità e dei nostri “normali” (purtroppo) egoismi.
Si certo… Io non avevo voglia di scrivere. Ma il racconto è partito, con le considerazioni che porta con sé, e una esperienza così particolare come quella che stiamo attraversando, provoca una tale esplosione di sentimenti dentro di te, che continueresti ancora a parlare e a scrivere.
Mi limito ad aggiungere solo due pensieri. Non sono più episodi da raccontare.
Il primo. Quasi subito, quando si è percepita la gravità dell’epidemia, che non solo provoca disagi, anche gravi, ma soprattutto semina morte, mi sono chiesto: ma come fanno coloro che situazioni di privazione, di disagio, di morte, di segregazione, di violenza, di paura, di distacco le vivono in forma endemica?! Coloro che non vedono mai la fine delle tragedie nelle quali sono immersi? Come possono vivere le popolazioni per le quali la carestia, la guerra, la mancanza di libertà, non sono “drammi a termine” come, giustamente, speriamo debba essere quello che stiamo attraversando noi? Ognuno deve guardare al suo problema? Forse sì: è impossibile indignarsi e soffrire, e piangere e pregare per ogni disgrazia che succede nel mondo. Ma, e l’ho detto anche ai miei parrocchiani, guardiamoci dalla miopia che ci fa vedere solo i nostri problemi.
L’altro pensiero è legato alla domanda che mi sono fatto circa il digiuno eucaristico. Perché i fedeli della parrocchia sì, e invece io no? Perché io, che ne sono certamente meno degno di molti altri, posso fare tutti i giorni la comunione? E’ giusto? Ho sentito anche un Vescovo confessare questo dubbio. L’alternativa sarebbe non celebrare per niente la messa, nemmeno a porte chiuse. In questo caso, però, spezzerei il cuore a tutti i parrocchiani che ci ascoltano via radio o ci vedono e a tutti quelli che si aggrappano alla speranza che viene dalla celebrazione che, comunque, anche con la chiesa senza la presenza essenziale dell’assemblea, rinnova il dono di Gesù e conferma la sua presenza in mezzo a noi. E questa valutazione mi basta. E spengo il dubbio.
E mi sento sostenuto dalla fede di tante persone che, non per certezze assolute o per pavoneggiarsi, pregano nelle loro case, mischiando lacrime e fiducia in Dio. Tra esse tanti di quei medici, infermieri, donne e uomini delle pulizie, commessi e trasportatori, che si fermano qualche minuto a benedire un moribondo, a pregare nelle cappelle degli ospedali, a sintonizzare la radio del camion sulla benedizione del papa, a seguire in tv il rosario del vescovo. Forse non è la fede più pura, ma è quella che ci ritroviamo nel cuore, almeno nei momenti di difficoltà.
Sento la gioia e il dovere di aiutare a riaccendere questa fede, come, in qualche maniera, anche senza fuoco benedetto, farò la sera del sabato santo, accendendo con uno stoppino, il cero pasquale. In realtà è il Cero-Gesù che accende me, come illuminerà splendidamente la chiesa, anche se vuota, in quella Veglia. E spero di riuscire a cantare con il trasporto e l’emozione di sempre il preconio pasquale!
A ricordare che la Carità non si può fermare davanti alle difficoltà del mondo, e anche in mezzo alla morte, si offre a noi come la via stretta, ma beata, da seguire.
don Angelo Domenghini