Femina agabbadora

“Femina agabbadora” chi era costei? È un personaggio appartenente alla tradizione sarda che mi è tornato in mente in questi giorni in cui si parla della legge di fin di vita. Appunto, l’agabbadora, era una donna che veniva chiamata a praticare una forma di eutanasia. Veniva chiamata quando il malato si riteneva alla fine ma la morte tardava a venire.

Vestita di nero, solitamente erano delle vedove che facevano questo servizio, veniva lasciata sola nella stanza del malato e in vari modi anticipava la morte o soffocandolo con un cuscino e con una specie di giogo che veniva messo sotto il collo con cui veniva rotto, appunto, l’osso del collo, come comunemente si dice. È una pratica andata in disuso dai primi decenni del secolo scorso ma di cui ne ho sentito parlare durante il mio ministero in quella bellissima isola. La civiltà intrisa di Vangelo ha avvolto soprattutto gli ultimi momenti della vita di una sacralità da desiderare la presenza del sacerdote fino al momento supremo dell’abbandono di questa terra per presentarsi a Dio. Ovviamente tutto il popolo veniva reso partecipe di questo momento importante col suono di una particolare campana, la campana dell’agonia, che invitava in chiesa a pregare per l’agonizzante. Tempi passati, usanze tramontate ma certamente segno di una civiltà veramente umana perché profondamente cristiana. Perché? Unicamente perché della vita di Cristo il momento più importante è il Calvario e la sua morte in croce. Le sue ultime sette parole sono la sintesi del Vangelo, il suo testamento. Per questo il malato è sacro, perché è colui che più di tutti assomiglia a Cristo e siamo invitati a vedere in Lui il Cristo sofferente e morente.
Uno dei momenti più delicati del mio ministero episcopale fu quando don Sergio, un mio sacerdote malato di SLA mi chiese il permesso di non firmare per autorizzare la tracheotomia e il PEG. “Da sedici anni ho donato la vita alla Chiesa e la vita non è mia. Sia lei a decidere” Mi disse quella sera in ospedale. Dopo essermi consultato con due primari gli dissi di autorizzare e l’una e l’altra. “Ma cosa ci sto a fare in questa vita se non a creare problemi”. Gli risposi. “È il momento più importante ed efficace del tuo ministero: ci stai a suscitare amore”. Ogni giorno ero al suo capezzale e una sera mi disse che avevo ragione perché non gli era mai capitata tanta gente che anche nell’ospedale voleva confessarsi da lui e gli chiedeva preghiere. Dopo pochi giorni sopraggiunse una crisi e il Signore se lo portò via. Aveva davvero suscitato più amore sulla Croce che nella sua giovinezza e il compito più grande di un uomo è suscitare amore, far amare, mettere in moto il cuore dei fratelli e mai il cuore si muove come dinanzi alla malattia e all’estrema necessità.
Quando venne a Roma Madre Teresa per celebrare il venticinquesimo della sua congregazione delle Missionarie della Carità si chiese, davanti a tutta l’assemblea riunita in San Giovanni in Laterano, cosa avevano fatto le sue suore in venticinque anni e disse “Abbiamo aiutato a morire migliaia di poveri”. Da notare: non abbiamo fatto morire, ma li abbiamo aiutati a morire. Proprio come Maria sul Calvario insieme a Gesù a morire con Lui, a morire di amore per Lui.
Dinanzi ai dibattiti di questi giorni queste potrebbero sembrare pie parole di chi non ha provato e che spera di non passarci. Posso soltanto testimoniare che per il cristiano la Croce è Salvezza mentre per gli altri, anche se tutti dobbiamo portarla è “scandalo e stoltezza” e mi sembra davvero che alcuni ritengano “uno scandalo e una stoltezza” veder soffrire in un certo modo. Non sono mancati e non mancano neppure ora coloro che ritengono bella la vita perché se la possono godere. Una volta cantavano: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”. La vita è bella anche a ottanta anni e dobbiamo farla amare anche quando vivere diventa impegno e responsabilità. La dimensione sofferenza e Croce è il centro della nostra fede e il modo con cui si accettano è il criterio di discernimento se siamo di Cristo o “nemici della Croce di Cristo”.
Capisco i medici che fanno obiezione di coscienza perché ci son passato anch’io quella sera del 23 agosto del 1984 quando i medici mi chiesero se autorizzavo a staccare il respiratore artificiale a mio cognato di quarantotto anni. Ero davvero sul Calvario con mia sorella accanto come Maria e pensando ai miei nipoti come Giovanni e non me la sentii di dare l’autorizzazione ma pregai il Signore di assumersi Lui tutta la responsabilità e dopo alcune ore se lo portò in Paradiso. Non me la sentii di staccarlo dalla Croce prima che fosse giunta la sua ora.
Le leggi degli uomini vanno per i fatti loro, potrebbero pure stipendiare l’accabadora, l’importante è che non venga meno nel cuore dei fedeli che ogni Croce è la Croce di Gesù e riusciremo anche ad esaltare quella Croce nella misura della nostra fede anche se per chi non crede è “scandalo e stoltezza”.
Noi ti adoriamo o Cristo e ti benediciamo perché con la tua Santa Croce e con tutte le Croci che sono tutte sante hai redento e redimi il mondo.

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